Definire e, soprattutto, misurare la cultura scientifica e tecnologica di un Paese è un’impresa ardua. Sia per la diversa interpretazione che di essa hanno i numerosi attori sociali che ne sono coinvolti, sia per le molteplici e spesso imprevedibili ricadute che scienza e tecnologia hanno nelle società contemporanee.
Esistono tuttavia dei paradigmi che hanno provato a esemplificare i flussi e gli indicatori che caratterizzano l’appropriazione, da parte di individui e gruppi, della cultura scientifica e tecnologica. Benché di non immediata comprensione, è proprio questo - “appropriazione” - il termine chiave dell’intera questione: solo se metabolizzato in modo chiaro e onesto da tutti i protagonisti della realtà nazionale e internazionale, è possibile fornire uno schema di interpretazione teorico e pratico del rapporto tra cultura, ricerca e società.
A questo scopo, occorre superare a livello metodologico la scissione tra dimensione individuale e dimensione sociale: cosa sono, i cittadini, se non entità sociali, nate e cresciute in un contesto sociale che li forma in tutti gli ambiti della loro esistenza? Le modalità con cui i singoli si appropriano della cultura scientifica e tecnologica sono dunque fortemente influenzate da quelle della società nel suo complesso, in particolare per mezzo delle sue istituzioni.
A seconda del ruolo ricoperto all’intero di quella sorta di catena del valore che è la trasmissione della conoscenza, è possibile individuare due macro-categorie di istituzioni. La prima include quelle impegnate direttamente nelle attività scientifiche e tecnologiche: ricerca & sviluppo, produzione tecnologica, diffusione e applicazione dei prodotti di questo lavoro, comunicazione. Della seconda fanno parte quelle che si occupano, di riflesso, di agire su alcuni aspetti e componenti delle prime: informazione e ricerca, coordinamento, regolamentazione e supporto.
L’applicazione di questo schema, per non rimanere sterile, presuppone un cambio di approccio rispetto al passato. Se modelli come quelli di C.P. Snow* e Lévy-Leblond** mostravano una separazione, se non una contrapposizione, tra scienza e tecnologia da un lato e cultura dall’altro; se quelli successivi connettevano le due sfere (ad esempio tramite l’operato di figure professionali come i comunicatori scientifici), pur mantenendole distinte; in un mondo che vuole dirsi davvero moderno, la cultura tout court dovrebbe essere imbevuta sin dall’inizio di scienza e tecnologia. La speranza è che l’auspicio diventi uno stato di fatto, non per ultimo grazie alla fine della Guerra Fredda tra scientia e humanae litterae e al contributo decisivo della cosiddetta "terza cultura".
C’è però un nodo che, in tale prospettiva, rischia di rimanere irrisolto: la misurazione effettiva, quantitativa, dell’appropriazione pubblica di scienza e tecnologia. Lo si nota, ad esempio, nel mondo accademico nostrano: l’Italia, un Paese tradizionalmente all’avanguardia in questo settore (è necessario citare nomi come Galileo Galilei, Enrico Fermi e Rita-Levi Montalcini?), sta scontando negli ultimi anni un handicap notevole nella formazione scientifica e tecnologica delle giovani generazioni. Tanto che si è arrivato a prevedere dei vantaggi economici per gli iscritti a facoltà universitarie come Fisica e Matematica. Evidenza persino peggiore: le poche eccellenze che ancora emergono nel Belpaese tendono a fuggire all’estero, per una serie di motivi che andrebbero affrontati a livello politico prima che culturale.
Sono sufficienti, in uno scenario del genere, gli indicatori canonici che enti come L’OECD (Organizzazione per cooperazione e lo sviluppo economico) mettono sul tavolo? Ha senso misurare il declino?
*C.P. Snow, The Two Cultures (Cambridge: Cambridge University Press, 1959).
**Jean-Marc Lévy-Leblond, L’esprit de Sel: Science, Culture, Politique (Paris: Seuil, 1984).
**Jean-Marc Lévy-Leblond, L’esprit de Sel: Science, Culture, Politique (Paris: Seuil, 1984).
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